L’impresa agromeccanica assicura flessibilità e resilienza ma non deve essere ignorata

L’avvicinarsi della data di erogazione dei fondi europei,

che andranno a finanziare il Piano nazionale di ripresa e

resilienza, richiede l’avvio di un dibattito che finora ci ha

toccati solo in parte.

Anche se la nostra classe politica è molto diversa da quella

dei padri fondatori della Repubblica, non è corretto attribuirle

responsabilità che oggettivamente non ha: come cittadini e imprenditori

abbiamo il dovere di sostenere i nostri rappresentanti e

di trasmettere loro le nostre idee. Poi, con l’autonomia di giudizio

insita nel mandato ricevuto dagli elettori, dovranno valutare la

soluzione migliore; ma non possiamo sempre pretendere che

conoscano a menadito tutti i bisogni del Paese se questo non

si esprime, nelle tante occasioni di dialogo che la democrazia ci

offre. Se è vero che la bozza di Pnrr è generica e non individua

obiettivi precisi, siamo certi di avere dato il nostro contributo

perché fosse più precisa e magari più rispondente alle necessità

della società civile e del sistema produttivo? Probabilmente no.

Ma, considerate le caratteristiche del Piano, è ragionevole supporre

che esistano ancora margini di discussione e di trattativa

sugli obiettivi e sulle modalità per conseguirli.

L’inflazione di informazioni che ci colpisce quotidianamente

ci spinge a semplificare le notizie, i dati e le stesse parole, fino a

farci sfuggire il loro significato più profondo: questo è accaduto

davvero, con i termini “ripresa e resilienza”, che sono stati associati

allo stesso significato. La resilienza, però, è una cosa ben diversa

dalla ripresa, perché indica la capacità di assorbire gli urti e le

sollecitazioni senza subire traumi permanenti; in un certo senso,

è la condizione che precede la ripresa, perché se la macchina si

rompe del tutto, come farà a riprendere?

Nel nostro sistema agricolo esistono varie forme di resilienza, a

partire da quella manifestata dalla moltitudine di micro aziende

che sopravvivono solo perché sostenute da altri redditi, di lavoro

e di pensione; ma questa è una sorta di resistenza passiva, che

non darà mai luogo ad una vera ripresa. La resilienza vera, nell’agricoltura

italiana ed europea, è dovuta alla diffusa presenza del

contoterzismo, che garantisce a tutte le aziende agricole, grandi

e piccole, flessibilità e adattabilità ai fattori perturbativi.

L’azienda agricola teorizzata dalle rappresentanze sindacali più

retrograde, quella in cui tutto si completa entro le mura della

cascina o della masseria (senza distinzioni geografiche), non

esiste più, se mai fosse esistita: neppure il pirandelliano don Lollò

avrebbe potuto ripararsi la giara da solo. La presenza degli agromeccanici

consente infatti alle aziende agricole di acquistare un

servizio che si completa nel ristretto tempo necessario, invece

di doversi sobbarcare un investimento di carattere permanente,

la cui durata è superiore all’effettiva necessità.

Se questa cambia, a seguito di una variazione colturale, di una

ristrutturazione aziendale, ovvero di una nuova tendenza (agricoltura

conservativa, di precisione o digitale), l’agricoltore non

è vincolato ad investimenti di medio o lungo periodo: basta un

colpo di telefono per risolvere il problema.

Questa è la vera resilienza: al variare delle condizioni l’azienda

agricola può rispondere subito, ma solo grazie alle imprese agromeccaniche,

che sono proprio quelle che guidano il processo di

rinnovamento. Tuttavia, non è neppure giusto sovvenzionare a

piene mani aziende che non investono, perché sanno che altri

hanno investito o investiranno al posto loro: un’ingiustizia palese,

che proprio il legislatore europeo – con l’impulso di Cai, tramite

Ceettar – sta cercando di eliminare.

Ma se in ambito comunitario prevale il pragmatismo, secondo il

principio che al di là delle idee si crea sviluppo solo prevenendo

disuguaglianze e ingiustizie, in Italia si tende ancora a considerare

come “giusto” ciò che in realtà si limita a tutelare un diritto

acquisito. Come preconizzava Aldo Moro nei tragici giorni della

prigionia, la spasmodica tensione verso i diritti può far perdere di

vista i valori fondanti della società: bisogna tornare ad una nuova

coscienza civile, che sappia riconoscere ciò che è davvero giusto,

al di là dei privilegi. Le opposizioni manifestate nel passato all’accesso

degli agromeccanici ai fondi per lo sviluppo rurale sembrano

superate a livello comunitario, ma continuano a serpeggiare,

sotto sotto, come se l’aggettivo “rurale” dovesse riguardare solo

le aziende agricole. Come ha ribadito la seconda Conferenza

di Cork, qualche anno fa, lo sviluppo delle aree rurali, che sono

sempre in ritardo rispetto ai territori urbani e suburbani in termini

di reddito e di opportunità, può essere conseguito solo aiutando

e sostenendo tutte le imprese, e non solo quelle agricole.

Gli impegni che abbiamo preso in Assemblea lo scorso 20

giugno prevedono un’azione più incisiva per fare sì che, in sede

di declinazione nazionale della nuova Pac, anche le imprese

agromeccaniche possano finalmente accedere ai fondi per lo

sviluppo rurale, in condizioni paritarie rispetto a quelle agricole.

Bisogna evitare che l’Italia resti, ancora una volta, in coda all’Europa.

• Gianni Dalla Bernardina

Presidente CAI