L’Europa che vorremmo si costruisce anche in Italia

L’ormai imminente appuntamento per il rinnovo del
parlamento europeo induce ad una riflessione sulla
legislatura ormai conclusa, forse la più difficile dai tempi
del Trattato di Roma. Un quinquennio apertosi con l’uscita della
Gran Bretagna, che ha mostrato quanto sia ancora labile il senso
di appartenenza alla casa comune: un sentimento indotto da
vecchi e nuovi nazionalismi e, talvolta, anche da un malinteso
concetto di democrazia.
La bufera della pandemia, dopo le iniziali requisizioni di materiali
sanitari e i blocchi al movimento di persone e merci, sembra
avere rinsaldato i rapporti fra stati membri e Unione, pur delineando
nuovi equilibri fra interesse nazionale e comunitario.
L’esplosione del conflitto fra Russia e Ucraina ha infatti riportato
alla ribalta il problema del rispetto delle esigenze nazionali: se le
scelte di politica internazionale vengono adottate senza prevedere
qualche forma di compensazione per i Paesi frontalieri, si
rischiano nuove divisioni.
Un primo esempio lo abbiamo visto – specialmente in Italia – sul
fronte dell’immigrazione, che ha provocato un diffuso risentimento
dei cittadini verso la governance comunitaria; chi si è trovato
ad accogliere i migranti provenienti ormai da tutto il mondo
si è spesso chiesto se non si sarebbe potuto fare qualcosa di più.
Il conflitto, ed il sostegno dato all’Ucraina, si è concretizzato poi
in una liberalizzazione selvaggia che ha riguardato i trasporti,
danneggiando pesantemente le economie dei paesi confinanti,
e ancor più l’intera agricoltura europea, con la soppressione dei
dazi sulle esportazioni. L’Ucraina è infatti il maggior produttore di
commodity del continente: gli effetti sui listini si sono subito fatti
sentire, aggravando il già diffuso risentimento degli agricoltori
verso l’Unione, accusata di voler contrastare, più che tutelare, la
produzione agricola europea.
La recente riforma della Pac, più di facciata che di sostanza, deve
scontare l’impostazione di fondo risalente alla fine dello scorso
decennio, orientata verso un concetto di tutela ambientale non
più attuale, che dovrà essere rivisto, tanto nelle motivazioni,
quanto nei tempi di realizzazione.
In parte questo lavoro è stato fatto, con il differimento in avanti di
vari obiettivi, dalla riduzione nell’uso degli agrofarmaci ai vincoli
colturali, che ha seguito il più generale indirizzo adottato, per
esempio, sull’impiego dei motori termici.

Ma è lecito attendersi qualcosa di più: le contraddizioni di cui s’è
detto peseranno in misura significativa sul futuro dell’agricoltura
europea, oltre che di quelle nazionali, se non verranno stabiliti
efficaci ristori rispetto ai danni provocati da scelte strategiche
che non hanno tenuto conto delle esigenze di tutti.
Ad aggravare il risentimento degli elettori ha inoltre contribuito
la (forse troppo) sollecita emanazione di vari provvedimenti da
parte di una Commissione ormai giunta a fine mandato: pragmatismo
per alcuni, volontà di ipotecare il futuro, in vista di un
possibile cambio al vertice, per gli altri.
Cosa vorremmo dall’Unione europea? Il fatto che siamo solo
uno dei paesi membri, anche se tutt’altro che marginale rispetto
al bilancio comunitario, dovrà portare ad un franco e
aperto confronto con i nostri partner, nell’ambito del nuovo
parlamento.
In primo luogo crediamo sia necessario che la futura Commissione
sia meno ispirata dalle ideologie e si occupi di più delle
esigenze reali: l’obiettivo ambientale deve restare – non si torna
più indietro – ma deve essere realizzato senza fughe in avanti
e senza danneggiare chi lavora. La libertà di movimento delle
persone deve essere tutelata, con regole comuni per chi entra
e per chi decide di spostarsi all’interno dell’Unione; per le merci,
e per i prodotti agricoli in particolare, deve essere garantita una
concorrenza libera, in condizioni di reciprocità sui vincoli e sui
metodi di produzione.
Non possiamo essere più severi con i nostri prodotti, sul tema
della sostenibilità, che con quelli importati: per entrambi deve
essere richiesto e verificato il rispetto di quei valori ambientali,
etici e sociali che da sempre contraddistinguono la nostra civiltà.
Un lavoro che il nostro Paese ha già in parte fatto, sta facendo e
dovrà continuare a fare: la difesa del “made in Italy” non è legata
solo alla qualità intrinseca dei prodotti tutelati, ma al sostegno del
nostro intero sistema produttivo e del lavoro della nostra gente.
In ciascun ambito dove si fa politica riveste un ruolo fondamentale
l’azione sindacale, fondata sul rapporto associativo, che
consente di raccogliere, filtrare e sintetizzare le esigenze dei
singoli: la Confederazione, con i suoi 77 anni di storia, è il tramite
per convogliare le idee verso chi è investito del potere legislativo.
Proprio in questo ambito stanno proseguendo le iniziative a
sostegno della proposta di legge per arrivare alla qualificazione e
al corretto inquadramento dell’attività agromeccanica: un’azione
continua e determinata che ha però bisogno dell’appoggio di
tutti gli associati.

• Gianni Dalla Bernardina
Presidente CAI Agromec