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Tutto cominciò da un gruppo di amici, seduti al tavolino di
un caffè in una piazza ancora segnata dalle tracce della
guerra da poco conclusa, che si godevano il timido sole
primaverile. Uomini già maturi che avevano percorso da protagonisti
la prima metà di un secolo che aveva piantato troppe
croci e che proprio per questo volevano cambiare il corso della
storia. Non volevano più conflitti fra le nazioni per allargare lo
spazio vitale, per dare da mangiare a tutti, per assicurarsi le
materie prime e l’energia: per questo progettarono di creare
un gruppo di Stati in pace fra loro, disposti a cooperare per la
prosperità comune.
Quel nucleo originario, nato a partire dai bisogni economici,
cercava di mettere in pratica gli ideali di libertà, di democrazia
e di cooperazione internazionale, come alternativa alla divisione
del globo in due blocchi creata dalla contrapposizione fra
comunismo e liberismo. In seguito la Comunità ha cambiato
più volte nome ed obiettivi, allargando funzioni e base territoriale
dall’economia alla difesa, dalla produzione alla tutela
dell’ambiente.
Il modello creato da De Gasperi, Schuman, Adenauer, Spaak e
tutti gli altri è ancora valido o, come altri ideali del XX secolo,
deve ritenersi superato? La domanda ha ovviamente una sola risposta,
nel senso che proprio quando si evidenziano le difficoltà
bisogna tenere risolutamente la barra e andare avanti. Semmai,
è la traiettoria a dover essere messa in discussione, perché alcuni
fra gli obiettivi fondanti dell’Unione sembrano essere stati
ignorati, ma non perché siano stati superati dalla storia.
Ora come allora il baricentro politico e strategico del mondo
è divenuto estraneo al continente europeo, il cui peso economico
sta vacillando: la Brexit ha solo aggiunto un elemento di
debolezza ad un’Europa che già aveva perduto gran parte del
suo ruolo guida.
Agli albori del boom, negli anni ‘50, si cercava di fare ripartire
l’economia assicurandosi la disponibilità delle materie prime,
con l’intento di creare quell’industria manifatturiera che ha
avuto importanti riscontri anche nel settore agroalimentare.
La lezione sembra essere stata dimenticata, o quanto meno
accantonata: da tempo la governance dell’Unione europea
persegue obiettivi, come la tutela dell’ambiente e la sostenibilità
sociale, che mettono in secondo piano gli elementi fondanti
della comunità. Attività strategiche come quelle petrolchimiche
sono state disincentivate, salvo poi scoprire che al di là del pur
lodevole sforzo verso l’elettrico e i combustibili alternativi, rappresenta
ancora un pilastro fondamentale dei trasporti e della
produzione, oltre che della vita civile, come è accaduto con
la crisi russo-ucraina. I nitrati di origine agricola e zootecnica
possono essere una valida alternativa ai fertilizzanti di sintesi,
e non solo un pericoloso inquinante delle acque superficiali e
profonde: ma il secondo aspetto ha prevalso sul primo, portando
a paragonare un stalla ad un impianto industriale.
Procedendo per gradi successivi, in quest’opera di demonizzazione
delle produzioni primarie, si è arrivati ad incentivare il
regresso dell’agricoltura verso una semplice funzione paesaggistica,
in cui il legame con l’alimentazione è sempre più labile.
Un vero e proprio delirio di onnipotenza che ha fatto spazio agli
alimenti sintetici, dal latte alla carne, senza curarsi né delle filiere
alimentari, né della vocazione del territorio rurale: il rispetto di
certi ecoschemi finisce per dare luogo a prodotti sempre meno
adatti all’alimentazione. L’industria di trasformazione si trova
dinanzi ad una crisi sia quantitativa – come accade ormai per la
filiera della pasta – sia qualitativa, perché gli incentivi spingono
indirettamente verso un peggioramento di quella qualità su cui
si fonda gran parte del successo del “made in Italy”. È necessario
un ripensamento, ma in tempi rapidi: i venti di protesta che
stanno interessando tutta l’agricoltura europea nascono, più
che dalle conseguenze economiche di un’annata difficile, dalla
constatazione che non ci sia più nulla da fare.
La politica agricola, la cui radice è prevalentemente comunitaria,
deve creare un patto stabile e duraturo fra i cittadini e gli agricoltori
europei, che riconosca il ruolo portante dell’agricoltura
nel sequestro dell’anidride carbonica e nella sua capacità di
contrastare efficacemente i cambiamenti climatici. Come ben
sapevano i padri fondatori dell’Unione europea, devono essere
le idee – e non le ideologie – a guidare le scelte di politica economica:
non si fa bilancio con gli slogan. Come confermato da
autorevoli studi, gli agromeccanici sono la chiave di volta della
transizione, perché consentono a tutte le aziende agricole –
grandi o piccole – di accedere alle nuove tecnologie per conservare
e rigenerare la fertilità dei suoli, che possono rendere
davvero sostenibile il processo produttivo.
Politica e agricoltura
un patto stabile e duraturo
per il futuro
• Gianni Dalla Bernardina
Presidente CAI