Scelte di campo o campi di scelta? Chi sono e cosa vogliono essere gli agromeccanici

Avremmo mai potuto prevedere che la caratterizzazione

di ciò che mangiamo abbandonasse la via della certificazione

della qualità delle materie prime (a cominciare

dall’origine) per sposare la linea, prettamente industriale, del

“cibo con” e del “cibo senza”?

Portando all’eccesso questa controcultura, in cui l’alimento

non è considerato in quanto tale, ma solo come strumento

di prevenzione di qualche imprecisato disturbo che temiamo

senza conoscere, abbiamo visto apparire, nell’ordine, le salse

senza olio, il burro senza grassi e i dolci senza zucchero. È del

tutto naturale, in questo processo che mette in dubbio ogni

identità, che notizie come quella (artefatta) del vino analcolico

e quella (vera) del latte artificiale, producibile a partire da qualsiasi

commodity a basso costo, suscitino le reazioni che si sono

puntualmente verificate.

Ma se saliamo di livello rispetto al gallinaio delle polemiche e

proviamo a guardare il mondo dall’alto (operazione sempre

più difficile, nonostante i droni), dobbiamo porci un dubbio

davvero amletico sull’identità, su quella attuale e su quella

che vorremmo. Erich Fromm poneva la questione fra avere o

essere, ma nell’attuale civiltà impallidirebbe dinanzi al dilagare

dell’apparire, del sembrare, al di là dell’essere. Se oggi l’essere è

cancellato dall’apparire, il dubbio si porrà fra avere ed apparire,

ma non più sull’essere.

Qui sta l’elemento primario: chi siamo e chi vorremmo essere?

Questo vale per l’agricoltore, sicuramente, che deve decidere se

vuole essere il custode di un’antica tradizione, non influenzata

dai tempi e dall’evoluzione tecnologica, secondo quei principi

che stanno portando alla definizione di “agricoltura contadina”.

Se preferisce piuttosto essere un imprenditore che segue il progresso,

accettandone i rischi e le incertezze, a partire dai tanti

dilemmi etici sull’uso della genomica e sulle sue conseguenze.

Vuole invece essere un’impresa totalmente multifunzionale,

in cui la produzione agroalimentare si integra con i servizi

ambientali e territoriali, passando per le esperienze ricettive

ed educative. E se anche volesse essere tutto quanto insieme,

deve comunque partire da un’analisi di ciò che è ora e di come

vorrebbe essere, facendo delle scelte che possono essere piacevoli

o spiacevoli.

Veniamo ora agli agromeccanici: cosa sono, o cosa vogliono

essere? Artigiani della terra, come ha scritto qualcuno senza

rendersi conto che i due termini sono incompatibili, a meno

di non cambiarne (con svariate leggi) le definizioni giuridiche?

Deve prevalere l’aspetto puramente esecutivo e limitare perciò il

suo ruolo alla sola prestazione di servizio sotto la vigile e sagace

direzione dell’agricoltore, come una sorta di bracciante meccanico,

di manovale elettronico, di schiavo post-tecnologico?

Deve invece prevalere quella di noleggiatore di prossimità – la

locuzione è di per sé limitativa – per aiutare gli agricoltori più

vicini, una specie di terzista a chilometro zero, senza una propria

precisa identità, ma con la consolazione di qualche piccolo

sconto su tasse e contributi?

Non vediamo in queste opzioni alcun motivo per essere orgogliosi

del nostro ruolo e della nostra professione: vogliamo

davvero essere solo e soltanto questo? Guardiamoci un attimo

alle spalle, e scopriremo che non è di oggi la vocazione alla produzione

agricola, che parte da come si eseguono le lavorazioni

alla scelta delle macchine. Le macchine agricole non vengono

preferite in relazione a quanto tempo, fatica o manodopera fanno

risparmiare all’agromeccanico, ma in funzione di quale sarà

la resa per il destinatario dei servizi prestati, di quanto questo

potrà fatturare e di quanto gli rimarrà in tasca.

Viene quasi da pensare che l’impreditore agromeccanico tenda

a ragionare proprio come ragiona (o dovrebbe ragionare) il suo

cliente; a valutare quale sia la scelta tecnica migliore, dal seme

al concime, dal diserbo alla difesa; a pensare, in definitiva, come

pensa un agricoltore. Ora, un artigiano della terra che finisce

per fare l’artigiano dell’agricoltura induce immediatamente a

pensare che l’abuso del termine serva solo a sostenere un ragionamento

che non sta in piedi. Sul piano strettamente logico,

sarebbe più corretto parlare di agricoltura per conto terzi: l’agromeccanico

questo fa, e questo è; se il suo pensiero si identifica

con quello di chi gestisce direttamente il fondo (e che talvolta

si riunisce nella stessa persona), non è forse egli stesso un tipo

speciale di agricoltore?

Se vogliamo continuare a fare parte dell’agricoltura, secondo

un principio ormai sancito da tempo dal nostro ordinamento

giuridico (Dl 99/2004, Centro Studi della Camera dei Deputati,

circolazione, carburanti, formazione e assunzione del personale,

nonché esclusione delle attività agricole dall’artigianato),

dobbiamo accettarne le regole, pur mantenendo la nostra identità.

Ma fuori dal mondo in cui viviamo, lavoriamo, investiamo

e soffriamo, chi altrimenti potremmo essere?

• Gianni Dalla Bernardina

Presidente CAI