Gli agromeccanici come fattore di stabilità economica e sociale

L’approvazione delle nuove strategie politiche, in ambito

comunitario e nazionale, per lo sviluppo sostenibile

dell’agricoltura e della filiera alimentare, sta suscitando

un ampio dibattito ad ogni livello.

A complicare il quadro ci si è messa la crisi economica determinata

dalla pandemia, che ha spinto l’Unione europea a rompere

il porcellino del Recovery Fund, pazientemente costruito negli

anni di “vacche grasse” e prudentemente tenuto in serbo per i

momenti difficili, quale è quello che stiamo vivendo. Un fondo

che alcuni Paesi hanno rifiutato sdegnosamente, quasi che fosse

un’offesa alla loro capacità di fare fronte a situazioni impreviste,

ma non imprevedibili: anche le calamità naturali arrivano in

modo imprevisto, ma il buon amministratore sa che deve accantonare

qualcosa per i tempi duri.

Il nostro Paese evidentemente non ha avuto buoni amministratori,

se è vero che ha accolto l’apertura del salvadanaio con un

entusiasmo che ha sorpreso i nostri partner europei; altra fonte di

sconcerto è stata la foga con cui i rappresentanti delle categorie

produttive hanno reclamato la “loro” parte.

Il Recovery Fund non è una Befana, carica di doni da gestire per

scopi politici o elettorali; come per altri fondi europei, dove prevale

la logica distributiva, il denaro viene speso senza produrre

effetti tangibili. Pensiamo per esempio allo sviluppo rurale, che in

quasi trent’anni ha cambiato i rapporti e le classifiche fra i Paesi

produttori ed esportatori: alcuni sono saliti di diverse posizioni,

arrivando addirittura in testa, mentre altri sono lentamente scivolati

a fondo classifica.

I primi hanno saputo gestire bene il flusso di denaro, stimolando

uno sviluppo effettivo delle aziende meritevoli e capaci di realizzarlo,

ha portato l’agricoltura di quelle nazioni ai vertici europei.

Chi invece si è limitato a distribuire i fondi, senza preoccuparsi

degli effetti reali, avrà forse consolidato una posizione politica,

ma rivolta verso il basso: dove l’interesse individuale ha prevalso

su quello comune, gli effetti negativi sull’economia nazionale

hanno determinato un declino altrimenti inspiegabile.

Qualsiasi alimento che richiama l’Italia raddoppia le vendite, in

tutto il mondo. Ma questo marchio così prestigioso deve essere

gestito in Italia, da un’agricoltura competitiva ed efficiente e non

diventare motivo di lamentele su ciò che ci copiano, solo perché

non riusciamo a produrne abbastanza e conquistare i mercati.

Se lo sviluppo rurale seguisse una strategia di lungo periodo saremmo

ancora in tempo ad invertire questa tendenza, sfruttando

a nostro favore il momento di smarrimento che accompagna la

pandemia: è proprio nei momenti di crisi che si deve progettare

il futuro. La proroga di due anni decisa a livello europeo e magistralmente

sintetizzata nell’espressione “soldi nuovi con regole

vecchie” vuole dare l’opportunità, a chi non lo ha ancora fatto, di

delineare una strategia di sviluppo che sia prima di tutto nazionale,

da calare poi ai livelli inferiori. Se l’Italia saprà approfittare di

questa occasione, potrà recuperare qualche posizione: ma per

fare questo bisogna cambiare la strategia, facendo in modo che

lo sviluppo si realmente efficace e capillare. Questo presuppone

una radicale revisione dei criteri finora adottati: il piccolo agricoltore

che prende i contributi per acquistare una mietitrebbia, che

non può venire ammortizzata, non sviluppa la sua azienda, ma

la condanna ad una lenta e costosa agonia.

Fino a quando le regioni continueranno a finanziare l’acquisizione

di beni, piuttosto che l’acquisto di servizi qualificati e

qualificanti, i fondi dei piani di sviluppo rurale saranno sempre

insufficienti, oltre manifestare i loro effetti in modo puntiforme

sul territorio. Poiché non è possibile finanziare tutte le aziende

agricole per l’intero ammontare dell’investimento, lo sviluppo

– se si realizzerà – sarà limitato ai pochi beneficiari, senza far

crescere l’economia del Paese.

Se invece si premiassero anche gli agricoltori che adottano pratiche

colturali virtuose, documentate dalle fatture emesse dalle

imprese agromeccaniche e dai report rilasciati dai sistemi di

tracciamento satellitare per facilitare i controlli ed evitare abusi,

non sarebbe forse possibile coprire tutte le aziende agricole?

Tutto questo senza dimenticare le istanze emerse dalla II Conferenza

di Cork, che hanno sancito il principio che i fondi per lo

sviluppo devono andare a tutte imprese operanti sul territorio

rurale, e non necessariamente ai produttori agricoli; è vero che

l’agricoltore fa parte del territorio rurale, ma non è il solo.

Destinare una parte, per quanto minima, dei fondi europei alle

imprese agromeccaniche porterebbe l’innovazione e lo sviluppo

non solo nelle aziende di punta, ma anche in quelle che, per vari

motivi, non riescono ad accedere direttamente ai finanziamenti.

Se gli agromeccanici hanno consentito agli agricoltori europei

di vivere e prosperare senza possedere migliaia di ettari, con il

conseguente abbandono delle campagne da parte di milioni di

persone, questo ruolo di stabilizzazione sociale ed economica

merita di essere finalmente riconosciuto.

• Gianni Dalla Bernardina

Presidente CAI