Ripresa difficile senza riforme: agevolazioni e contributi non bastano più

Da Nord a Sud, la competitività del sistema produttivo è in

crisi e se non si prenderanno misure più incisive, e risolutive,

alla fine dell’emergenza sanitaria farà seguito un lungo

periodo di recessione.

Il costo del lavoro è il principale fattore negativo e costituisce un

incentivo all’illegalità: dato che la maggior parte di esso è assorbito

da imposte e contributi, dei quali solo la metà servirà a garantire

la pensione al lavoratore, la differenza fra lordo e netto finisce per

premiare gli evasori. In altri paesi dell’Unione europea, anche quelli

che hanno un sistema previdenziale e fiscale simile al nostro, la

maggior parte del costo rimane nelle tasche del lavoratore, che

ha a disposizione un reddito effettivamente spendibile in grado –

ad emergenza finita – di rilanciare i consumi. In Italia, invece, è il

sistema produttivo a pagare le inefficienze dello Stato, col risultato

che più aumentano le differenze rispetto al lavoro irregolare, più

questo finisce per prosperare, specie dove la presenza statale è

labile o percepita come tale.

Ma gli oneri previdenziali non sono i soli protagonisti di questo

squilibrio, che coinvolge direttamente anche le imposte sui redditi:

come si può pensare di stimolare i consumi quando almeno un

quarto di ogni euro guadagnato deve andare allo Stato, anche con

redditi al di sotto della soglia di sopravvivenza? Quando si parla di

pressione fiscale bisogna poi considerare che nel prezzo di ogni

bene o di ogni merce che il privato cittadino deve acquistare per

vivere, sono comunque comprese varie imposte, a partire dall’Iva,

che incide – a seconda dei prodotti – per una percentuale che va

dal 4 al 22%.

E tutto ciò senza contare le accise, nascoste nei prezzi dei prodotti

energetici, dall’energia elettrica al metano, dai carburanti agli alcolici:

stupisce per esempio che anche quest’anno si siano registrate

le solite pressioni, in ambienti governativi, per aumentarle. Accise

che sono già elevatissime: sul gasolio destinato all’autotrazione

incidono per circa 61 centesimi al litro, esattamente il doppio del

costo industriale del carburante: una differenza talmente elevata

da alimentare un fiorente contrabbando dall’estero ed un’evasione

miliardaria. Il meccanismo è relativamente semplice e si fonda sul

diverso regime fiscale previsto per i lubrificanti; con l’aiuto di documenti

falsi il gasolio entra in Italia come “olio” e può quindi essere

smerciato tramite distributori compiacenti, che lo vendono insieme

al gasolio regolare, magari a prezzi stracciati.

Insieme all’aumento delle accise, poi, anche quest’anno si è parlato

di ridurre, se non di sopprimere, le agevolazioni sui carburanti

agricoli, un’iniziativa che Cai ha fortemente contrastato per i gravi

effetti che potrebbe determinare sul settore primario, già messo a

dura prova. La ricerca di facili entrate sui carburanti – i più tassati in

Europa – altro non fa che rendere più remunerativi questi traffici

che, oltre a sottrarre gettito allo Stato, richiedono un forte impegno

di risorse che potrebbero essere destinate al contrasto di tante altre

attività illecite. Se potessimo godere di un sistema fiscale più giusto

e più aderente a quello adottato dagli altri partner europei, l’Italia

potrebbe far valere il proprio immenso potenziale competitivo,

attraendo investimenti e insediamenti che invece dobbiamo mestamente

veder fuggire all’estero.

Le attività che ruotano attorno alla produzione agricola primaria

– che gode di un regime di tassazione simile a quello dei “paradisi

fiscali” – rendono ancor più stridenti questi contrasti.

L’imprenditore agromeccanico paga le imposte sul reddito d’impresa,

con un carico fiscale e contributivo totale che supera il 50%;

l’agricoltore paga molto meno della metà,con un’incidenza di

tasse e contributi che si riduce ulteriormente se svolge attività più

redditizie, come la produzione di energia.

Non sembra accettabile, né costituzionalmente legittimo, che

nell’ambito dello stesso settore produttivo due imprese così strettamente

legate si trovino a sopportare carichi tanto diversi.

Se queste iniquità servissero almeno ad aumentare la competitività

del settore agricolo, sarebbero più facili da tollerare; ma sembra

invece che accada il contrario. Ai tempi in cui l’agricoltore godeva

del solo vantaggio della tassazione catastale, dalle attività agricole

si ricavava un reddito accettabile, che consentiva di mantenere una

famiglia; oggi sembra quasi che aiuti, agevolazioni e facilitazioni

servano solo a controbilanciare, almeno in parte, le vessazioni

che il mercato può liberamente commettere nei confronti dei

produttori agricoli.

Un siffatto atteggiamento è figlio della deriva liberista che ha

contraddistinto le politiche agricole degli ultimi decenni: eppure,

fra gli ideali fondanti dell’Unione europea c’è proprio la convinzione

che la politica debba influenzare l’economia, e non subirla

passivamente.

Agevolare l’agricoltore rispetto ad altre categorie produttive, solo

perché non si vuole incidere sui mercati, sta portando al suo progressivo

impoverimento. Pagare poche tasse non serve a nulla

se non c’è guadagno: meglio pagare come gli altri ma lavorare

dignitosamente e vedere riconosciuto il frutto delle proprie fatiche.

• Gianni Dalla Bernardina

Presidente CAI