Libera concorrenza e libero mercato non si equivalgono sempre: chi paga le conseguenze?

La sacralità del regime di libera concorrenza, uno dei fondamenti

dell’economia di mercato, è stata sancita più volte

nella storia dell’Unione Europea. Un organismo fondato

oltre sessanta anni fa da uomini politici di vari paesi per superare

i nazionalismi che avevano condotto all’immane catastrofe della

guerra, che credevano fermamente in quella libertà di cui per

troppo tempo erano stati privati.

L’Unione Europea si fonda sul libero mercato, corretto con un

pizzico di economia sociale: la politica è chiamata ad intervenire

per limitare le differenze e le ingiustizie, a correggere le piccole

e grandi anomalie del liberalismo, ma sa che deve restare fuori

dall’economia. In questo sistema i nostri produttori agricoli

sono soggetti a regole precise: regole del tutto ignorate dai produttori

di altre nazioni, in particolare nei paesi extracomunitari.

L’Unione europea è stata influenzata forse troppo dai negoziati

sul commercio internazionale Wto, e alla fine ha prevalso un

concetto di “liberalizzazione”, estraneo ai principi ispiratori dei

costitutori della casa comune, che sta producendo pericolose

aberrazioni. Le libertà individuali sono sacre, è vero, ma sono

limitate dall’esercizio della libertà altrui: se qualcuno “supera” le

regole del “gioco”, il gioco diventa anomalo e finisce.

È ciò che accade quando si aboliscono i dazi sulle importazioni

di certi prodotti, per aiutare popolazioni rurali infinitamente più

povere di noi: una bellissima cosa. Ma se in quei paesi speculatori

pubblici e privati si mettono d’accordo per vendere i prodotti

sottocosto, per procurarsi valuta pregiata, si ricade nello

stesso caso dell’abuso della libertà individuale, con conseguenze

profondamente negative per chi vuole, o deve, attenersi alle

nostre regole. Così facendo, alla crisi si aggiungono iniquità

sociali e non si risolvono i problemi: la nostra agricoltura sarà

sempre più in difficoltà, senza che si riducano le differenze fra

poveri e ricchi in altre parti del pianeta.

In altri settori produttivi questo non è così facile: le norme antinquinamento

impediscono, per esempio, di vendere in Europa

un veicolo che non garantisce la piena sostenibilità ambientale.

Sarebbe perciò logico se anche i criteri di valutazione della sostenibilità

– in questo caso sociale, ambientale e alimentare –

dovessero essere rispettati per qualunque prodotto venduto

nello spazio commerciale europeo. Un’attenzione che esiste già

in una parte dei consumatori, ma che non è ancora stata resa

obbligatoria, con gravi conseguenze per gli agricoltori comunitari.

Le importazioni di prodotti comunitari a dazio ridotto o

nullo sono accettabili solo a parità di vincoli e condizioni per i

produttori, secondo le regole della libera concorrenza. Bisogna

pertanto istituire una sorta di “bollino blu” per i prodotti che rispettano

le nostre regole di sostenibilità, ai quali deve essere

garantito il libero scambio; per tutti gli altri prodotti le importazioni

devono essere regolamentate e limitate, ricorrendo agli

strumenti di difesa dei mercati.

• Silvano Ramadori

Presidente UNIMA