AGRICOLTURA FRA INNOVAZIONE E SUPERSTIZIONE

Il sistema agroalimentare sta subendo da qualche tempo una

doppia pressione mediatica, sulla quale sarebbe opportuno

condurre una riflessione. Da un lato la produzione agricola,

interpretata in una visione mediatica folcloristica (forse mai

esistita) e dall’altra la sua reale natura di scienza della vita,

fondata su tecniche produttive sofisticate ma troppo spesso,

immotivatamente, accusata di essere fonte di inquinamento

e di pericolo per la salute. Nella stessa filiera, ma su un altro

versante, l’industria di trasformazione, che strizza l’occhio alla

tipicità e alla tradizione – a livello pubblicitario – ma senza

mostrare ai consumatori come realmente avvengono i processi

produttivi e da dove provengono le materie prime utilizzate

per i “sani cibi italiani”.

Il consumatore non sa cosa succeda nell’una e nell’altra parte

della filiera: ad esempio che prodotti di scarsa qualità possano

diventare, grazie al miracoloso e salvifico processo industriale,

un alimento di grande caratteristiche tipiche. Un processo che

vale molto, e che quindi deve costare molto, giustificando così

la vergognosa differenza fra il prezzo alla produzione e quello

alla vendita; un prezzo che il consumatore pagherà con gioia,

sapendo che sono due prodotti ben diversi: quasi pericoloso

il primo, sano sicuro e “naturale” il secondo. Lo sanno, i

consumatori, come viene ottenuto il grano della pasta? Forse sì:

anche qui si insinuano sospetti, si mostrano grandi macchine

e oleografici quadretti di figuranti che fingono di mietere,

cercando di far passare il messaggio che la nostra pasta non

ha nulla a che vedere con l’agricoltura “industriale”, ma è una

produzione “tipica”, realizzata con cura casalinga e ottenuta

da prodotti “fatti a mano”. In fondo, il concetto di “hand

made” è sempre stato il motivo dominante per valorizzare

qualsiasi prodotto industriale, dalla moda all’automobile: ma

il consumatore viene informato su quanto potrà mai essere

stato pagato colui che ha dedicato una giornata di lavoro ad

un oggetto da pochi euro (di norma accade nei Paesi in via di

sviluppo)? Potrà forse godere delle stesse tutele e degli stessi

diritti civili del cittadino che lo acquista?

Almeno a parole, nel resto dell’Unione europea si pone

qualche attenzione alla compatibilità sociale dei prodotti,

alimentari e non; da noi non sembra che se ne interessi

nemmeno la politica, che pure dovrebbe guidare i cittadini

ad essere consapevoli nelle scelte individuali, e coerenti

con i principi costituzionali. Se torniamo all’agricoltura, è

evidente l’interesse a mostrare la totale sicurezza dei processi

di trasformazione alimentare, garantita da norme sanitarie

precise e stringenti. Ma questo interesse non deve andare

a demonizzare la produzione agricola primaria, anch’essa

soggetta a rigide disposizioni ed adeguati controlli sulla

sanità e salubrità dei prodotti agricoli, qualunque sia la loro

destinazione finale.

Un cereale contaminato da micotossine non deve entrare

nella filiera alimentare e mangimistica, e questo è logico; ma

è meno logico che i prodotti da agricoltura biologica siano

percepiti come assolutamente sani, pur contenendo anch’essi

micotossine come, e forse più, di quelli ottenuti dall’agricoltura

convenzionale. In un ambiente ormai gravemente inquinato,

soprattutto dai processi industriali e da un abuso dei mezzi di

trasporto individuali, l’opinione pubblica si attacca al settore

produttivo più debole, anche nei numeri, dimenticando che

l’attività agricola è l’unica a consumare più anidride carbonica

di quanta ne produce.

Le recenti prese di posizione sul glifosate sono un esempio

di questa visione superstiziosa della chimica applicata: il

glifosate è una molecola che viene rapidamente demolita

dall’attività batterica del terreno agrario e che, di fatto,

non può finire nelle acque superficiali e profonde se usata

secondo le regole. Gli agricoltori e i contoterzisti, che usano

il prodotto quotidianamente e ne conoscono le dinamiche,

sono fortemente preoccupati da questa campagna mediatica,

che potrebbe rendere inapplicabili proprio quelle tecniche di

coltivazione (agricoltura conservativa) che hanno un minore

impatto ambientale. Forse non è un caso che il glifosate non

sia più coperto da brevetto industriale e che possa venire

prodotto anche al di fuori delle grandi multinazionali della

chimica; ma l’ipotesi di messa al bando del formulato giustifica

sempre di più i timori di un controllo occulto sull’opinione

pubblica, che può essere indirizzata a piacimento anche

nell’era dell’informazione, o meglio della disinformazione.

Sarebbe poi interessante sapere se, nell’ipotetico caso in cui

ne fosse vietato l’impiego in Europa, la stessa Unione europea

sarà poi in grado di bloccare alle frontiere le derrate alimentari

provenienti dai Paesi dove il glifosate – e altri prodotti ben più

pericolosi per la salute umana, da tempo proibiti in Europa –

sono ancora allegramente impiegati.

Abbiamo più di un motivo per ritenere che ciò non accadrà:

continueremo a vietare a casa nostra e a importare materie

prime contaminate, prodotte fuori dall’Europa, come abbiamo

potuto constatare con gli organismi geneticamente modificati

(soia, mais e pomodoro), che si continua a importare e ad

impiegare nell’industria alimentare: chissà se i consumatori lo

sanno?