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La fiducia nelle Istituzioni
deve ripartire dall’equità
L’attuale momento storico offre diverse forme di
incertezza – dalla situazione internazionale, al
terrorismo, all’economia – che non aiutano il cittadino a
recuperare fiducia nel “sistema Italia” e nelle istituzioni
a causa della scarsa sensibilità verso l’equità.
Una crisi di valori anticipata da Aldo Moro quasi 40 anni
fa, quando scriveva “Questo Paese non si salverà. La stagione
dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera, se in
Italia non nascerà un nuovo senso del dovere”. Dobbiamo
però ammettere che le colpe sono a tutti i livelli: a
dispetto del dettato costituzionale, tante leggi, emanate
col lodevole scopo di sostenere una categoria “debole”,
hanno fatto “giustizia” creando disuguaglianza. Il fenomeno
riguarda soprattutto le attività economiche, e fra
queste spicca l’agricoltura, settore strategico per le sue
funzioni alimentari ed ambientali: un mestiere difficile,
che richiede capacità e competenze specifiche; un lavoro
rischioso, esposto ai capricci e all’ira del clima; un
mercato ormai globale e imprevedibile, con oscillazioni
estreme dei prezzi; per concludere, un’attività indispensabile,
ma con una redditività assolutamente aleatoria.
È del tutto comprensibile che, da tempo immemorabile,
la legge consideri l’agricoltura un’attività un po’ speciale,
non assimilabile alle altre componenti dell’economia.
Il riconoscimento di questa specificità è, senza alcun
dubbio, un atto di giustizia. Ma se ci addentriamo in
questo mondo così particolare possiamo scoprire differenze
di trattamento tali da far sospettare l’esistenza di
agricoltori di serie A e di agricoltori di serie B. La leva
fiscale, ideata al fine di rendere giustizia a chi vive di
agricoltura, ha di fatto adottato due pesi e due misure, il
cui spartiacque è la posizione previdenziale del soggetto
agricoltore. Non ci sarebbe nulla di male se gli sgravi
fiscali fossero stati istituiti per compensare una posizione
previdenziale onerosa: sarebbe giusto, perché aiuta
chi ne ha bisogno, equo perché tratta tutti nello stesso
modo.
Ma, dati alla mano, possiamo scoprire che un artigiano,
un commerciante e un coltivatore diretto, nella media
nazionale, pagano più o meno gli stessi contributi, pur
avendo regimi fiscali diversi: ma ci può stare che le attività
agricole siano agevolate fiscalmente, in forza della
loro specificità. Le differenze diventano tuttavia incomprensibili
quando, a esercitare la medesima attività agricola,
siano soggetti che pagano i contributi in gestioni
previdenziali diverse: a differenza degli altri, il coltivatore
diretto non paga l’Imu sui terreni, paga meno tasse
sui redditi fondiari, e persino imposte ridotte sui trasferimenti
immobiliari.
Ovvio, si dirà, ognuno deve fare il suo mestiere: ma la
libertà d’impresa, dove la mettiamo?
Perché mai un contoterzista – artigiano – che abbia
anche terreni propri che conduce direttamente, deve
pagare almeno il 30% di tasse in più di un coltivatore
diretto? Dove sta la differenza? A parte il fatto che l’impresa
agromeccanica lavora la terra anche quando opera
per conto terzi (e se la lavora lui, che fa l’agricoltore?),
perché deve pagare di più quando lavora sul suo?
Nel settore delle agro energie, dove sono in gioco milioni
di euro, le differenze sono ancor più evidenti e già
con la legge di stabilità 2016 il governo è intervenuto
per limitarne la portata. Il riferimento alla posizione
previdenziale del coltivatore diretto, oltre a creare disuguaglianze,
ha un effetto negativo, ben più sottile, anche
sullo sviluppo del settore primario, in quanto privilegia
le aziende di piccole dimensioni, fenomeno che presuppone
la necessità di sostegno “all'infinito”. Infatti, se le
piccole aziende possono godere di maggiori agevolazioni
di quelle grandi, quale stimolo potrebbe avere chi
volesse assumere una dimensione “europea”, paragonabile
alle aziende agricole di altri Paesi quale condizione
imprescindibile per la competitività?
Le imprese agromeccaniche chiedono al Governo e
al Parlamento che vengano riconosciute, accanto alle
particolarità delle attività agricole in senso stretto, anche
quelle di chi lavora a favore dell’agricoltura, e non solo
sul piano della fiscalità. D'altronde l’aiuto si trasferirebbe
indirettamente anche alle imprese agricole. Se è
sacrosanto il principio che un agricoltore sia in parte
compensato quando perde il prodotto per una calamità
naturale, sarebbe altrettanto giusta – ed equa – una
compensazione analoga a favore di chi perde l’unica occasione
che ha, per quell’anno, di far lavorare le proprie
macchine e di pagarle.