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Il G7 Agricoltura, tenutosi in Sicilia a fine settembre, si è concluso
con una dichiarazione congiunta dei sette ministri agricoli,
che deve essere attentamente esaminata prima di dare giudizi
affrettati sui reali effetti che i lavori apporteranno all’agricoltura
italiana ed europea. La tendenza a chiudersi nel particolare può
fare dimenticare il quadro generale: il G7 opera sulla dimensione
globale e non dipende, come si sarebbe portati a pensare, dalla
collocazione geografica dei paesi che ne fanno parte. Un atteggiamento
che trae origine dai nazionalismi presenti ovunque e
che stanno alla base dei tanti conflitti che insanguinano il mondo:
all’organizzazione internazionale – dall’Unione Europea alle
Nazioni Unite – si chiede di trasformarsi in un’arena dove fare
valere i propri diritti, veri o presunti. Nel nostro caso, però, i paesi
membri del G7, così come quelli del G20 e di altri organismi
aventi valore rappresentativo, non sono chiamati a portare
nella trattativa i loro specifici bisogni, ma a gestire un negoziato
che deve tenere conto delle necessità di tutti, a partire dai più
deboli. Chi ha sperato che gli incontri di Ortigia servissero a
perorare solo la causa degli agricoltori italiani è rimasto deluso
e si è già espresso in termini critici: non è da escludere che
qualche scheggia impazzita accenda nuovi fuochi, come
accadde nello scorso inverno. L’Italia ha fatto presenti le necessità
di un’agricoltura a misura d’uomo, intimamente legata
al territorio e al paesaggio rurale, che sono le caratteristiche
salienti del nostro sistema produttivo, che nei primi giorni della
manifestazione ha messo in mostra le nostre eccellenze; ma
se perde redditività e attrattività verso i giovani è destinato a
soccombere. Nell’ambito delle nazioni industrializzate facenti
parte delle principali istituzioni internazionali, il nostro modello
produttivo è forse l’unico ad avere mantenuto quelle caratteristiche
– come la matrice familiare – che contraddistinguono le
economie meno sviluppate. L’Italia, che fino a pochi decenni
fa era ancora interessata da un’emigrazione massiccia verso
tutti i continenti, può rappresentare un modello credibile per
molte nazioni che ancora si trovano in difficoltà: con il lavoro
di tutti, l’affrancamento dalla fame e dalla povertà non è più un
sogno. Un cammino che è stato (ed è tuttora) possibile grazie
all’integrazione economica e sociale di cui sono stati protagonisti
gli agromeccanici, fin dalla metà del secolo scorso, quando
lo sviluppo industriale aveva privato le nostre campagne di
milioni di lavoratori. In Italia il contoterzismo ha aiutato a mantenere
attiva l’agricoltura familiare ed accompagnarne l’evoluzione,
anche dimensionale; altrove la mancanza di capitali e di
conoscenze ha fatto sparire le piccole imprese a vantaggio di
pochi, grandi investitori e di società multinazionali. Nell’ambito
della cooperazione internazionale possiamo esportare questo
modello di sviluppo agricolo, garantendo stabilità ed evitando
che milioni di piccoli agricoltori lascino la terra per le megalopoli
del Sud del mondo, rendendo ancora più acute le tensioni
sociali. Non dimentichiamo che la sicurezza alimentare, che
ha dominato il dibattito, riguarda proprio quell’11% della popolazione
mondiale che ancora soffre la fame; gli interventi sui
mercati sono ammessi dagli accordi sul commercio globale
solo se assicurano a tutti l’accesso ad un cibo sano e sicuro,
senza discriminazioni. Il documento conclusivo continua ad
insistere sulla sostenibilità e sull’impatto ambientale, con un
sottile rimprovero verso un’agricoltura ritenuta, erroneamente,
responsabile dei cambiamenti climatici: ma qualche spiraglio
sembra essersi aperto sul riconoscimento dei meriti, anche in
questo campo. Si riconosce che l’agricoltura è indispensabile
al genere umano; che l’uso dei fertilizzanti non deve essere
limitato, ma promosso, sia pure in senso sostenibile; che la
lotta ai parassiti e alle infestanti è indispensabile e che la tutela
dell’ambiente serve prima di tutto all’agricoltura, oltre che alla
collettività. Concetti che erano già presenti, almeno in embrione,
nel discorso di insediamento di Ursula von der Leyen alla
presidenza della Commissione europea e che testimoniano
che l’Europa può dire la sua anche oltre i propri confini, ed
essere ascoltata.
La protezione dei redditi agricoli non passa affatto in secondo
piano, e se proprio bisogna tracciare un bilancio di questa sessione
del G7, questo è senz’altro positivo, perché si sta facendo
strada un nuovo modo di impostare le strategie di sviluppo
globale, proprio a partire dall’agricoltura. Come accadde con
Expo 2015, il G7 è stato teatro di incontri e discussione fra gli
esponenti della politica e delle imprese: a nome di Cai Agromec
ho partecipato insieme ai due vice presidenti, Gianluca Ravizza
e Michele Pedriali portando a casa numerosi spunti e proposte
che arricchiranno, nell’immediato, la nostra azione e l’agenda
politico-sindacale del prossimo anno. Le personalità incontrate
hanno concordato sul ruolo che le imprese agromeccaniche,
braccio operativo dell’agricoltura, hanno svolto, svolgono e
svolgeranno nel suo processo di rinnovamento.
• Gianni Dalla Bernardina
Presidente CAI Agromec