Recovery Fund, un’opportunità sprecata?

Dell’imponente fiume di denaro stanziato dall’Unione europea

per rilanciare l’economia dopo il terremoto provocato

dalla pandemia di Covid-19, ben 209 miliardi sono

destinati all’Italia, di cui oltre 127 di prestiti e più di 81 per sussidi.

Un piatto ricco, forse troppo, per gli appetiti di chi proverà a

specularci sopra, ma poco efficaci se dovessero disperdersi in

una miriade di interventi a pioggia, dal chiaro sapore elettorale.

In fondo, 1.300 euro a testa – contando anziani e lattanti – non

salveranno nessuno, eccetto forse coloro che vivono in condizioni

di estrema povertà e con questi spiccioli, lungi dal cambiare

la loro condizione, potrebbero tirare avanti un altro po’.

Il fondo scaturisce da una vecchia idea (francese, a quanto pare)

di emettere titoli europei, garantiti dal bilancio dell’Unione, per

fare fronte a possibili crolli del prodotto interno lordo determinati

da eventi di carattere globale, non imputabili quindi ai paesi

membri.

La prime richieste italiane, inizialmente e frettolosamente snobbate,

con il passare del tempo (ed il progredire dell’epidemia)

sono state rivalutate anche dai più scettici, con il risultato di incassare

il pieno appoggio di Francia e Germania, seguite poi da

Olanda, Austria, Danimarca e Svezia.

La lunga premessa ci serve per capire che il Recovery Fund non

è la Befana, ma uno stanziamento di emergenza che deve servire

a far ripartire l’economia; guardando al passato, possiamo

stare sicuri che gli Stati sopra elencati faranno di tutto per sfruttare

al meglio questa opportunità.

E noi, cosa faremo? Bella domanda, a cui nessuno sembra voler

rispondere, soprattutto ora che è appena passata la tornata

elettorale. I segnali che ci giungono sono però poco confortanti,

perché se è vero che in Francia il programma di spesa, estremamente

dettagliato, riempie un dossier di 300 pagine, il nostro

sembra più una sorta di “libro dei sogni” in cui si esprimono tanti,

forse troppi, desideri, ma senza sviluppare alcun tema specifico,

in un quadernetto di nemmeno 40 pagine.

L’impressione è che, al di là delle belle ma generiche parole,

manchi un progetto organico su cosa fare e come; anzi, forse

manca proprio l’idea di quello che dovrebbe essere lo sviluppo.

Si dice che la politica sia l’arte del possibile, tuttavia scoprire che

ad oggi tutti i paesi dell’Unione hanno già nel cassetto il progetto

completo, con tanto di ripartizione dei fondi, mentre noi

siamo ancora alle dichiarazioni di principio, non fa ben sperare

nemmeno chi è abituato a dover fare fronte agli improvvisi mutamenti

della gestione di un’azienda.

Lo scorso mese tutti i ministri si sono affrettati a riferire ai media

cosa avrebbero voluto fare, ma senza mai entrare in dettaglio, e

soprattutto senza giustificare una strategia piuttosto che un’altra.

Il dicastero agricolo non è stato da meno: belle affermazioni di

principio, tante idee, ma poca concretezza. Due sono i filoni da

seguire per gli interventi – pubblico e privato – ma abbiamo il

legittimo timore che si voglia privilegiare il primo, gestendolo

però come il secondo: dare denaro allo Stato e alle pubbliche

amministrazioni, affinché superino le loro difficoltà interne, tutto

qui.

Non c’è dubbio che un’amministrazione efficiente possa semplificare

la vita delle imprese, specie di quelle che non sono mai

state toccate dalle tante semplificazioni previste per il settore

agricolo, tuttavia pare difficile che questo basti a risollevare l’economia

nazionale.

Bisogna semmai intervenire sul “pubblico” perché possa essere

veramente al servizio delle imprese, e sul settore privato, per ciò

che produce innovazione; se questa si può fare solo investendo,

ha senso sostenere gli investimenti, ma senza sciupare risorse

in inutili iniezioni di denaro a fondo perduto.

Per esempio, se si vuole creare innovazione in agricoltura, bisogna

allontanarsi dalla vecchia tattica di finanziare acquisti, che

potrebbero poi restare inutilizzati. Bisogna invece finanziare chi

realizza processi e attività, mettendoli a disposizione del sistema

produttivo, su scala territoriale e non solo nei ristretti confini

della singola azienda.

Vogliamo diffondere l’agricoltura di precisione? Bene, smettiamo

di finanziare l’acquisto della macchina, spostando le risorse

su chi adotta una procedura, applica un protocollo, usa una

tecnologia e ne tiene traccia; su chi può dimostrare che segue

il programma di sviluppo e solo in forza di questo riceve il sussidio.

Smettiamo inoltre di identificare l’agricoltura con l’agricoltore,

una visione tradizionale che non esiste più; l’agricoltura è caratterizzata

dall’integrazione fra le risorse, dalla specializzazione e

dalla professionalità: il “contadino” tuttofare sopravvive solo nelle

economie povere da un dollaro al giorno.

È auspicabile che ciò avvenga: se dovesse invece prevalere la

strategia dei finanziamenti a pioggia, che hanno dominato la

politica agricola nazionale degli ultimi 30 anni, con i miseri risultati

che tutti possiamo vedere, avremmo sprecato l’ennesima

occasione. Ma ce ne saranno altre?

• Gianni Dalla Bernardina

Presidente CAI