La politica non ascolta gli agromeccanici: cosa teme?

La civiltà digitale viene spesso accusata di favorire la banalizzazione

di quella informazione che dovrebbe invece

promuovere e da cui essa stessa nasce e trae la propria

energia vitale.

Un’accusa impropria perché, come vedremo con un esempio,

è proprio la mancanza di controllo sulle fonti a garantire la

raccolta e la diffusione democratica ed imparziale delle notizie.

È più o meno ciò che accade tutte le volte che una minoranza,

numerica o economica, prova a chiedere il soddisfacimento

di un bisogno – che potrebbe anche essere quello primario

della giustizia – a chi detiene il potere legislativo.

Una mano nascosta – ma provvidenziale – avrà nel frattempo

curato che ogni legittima esigenza venga accompagnata, o

anche solo avvicinata fisicamente all’interno di un progetto di

legge, ad altre proposte assai meno giustificabili.

Grazie a questi piccoli artifici nessuno troverà da ridire se

poi l’organo legislativo cancellerà la proposta: dinanzi ad

una richiesta ingiustificata si potrà sempre invocare il trionfo

del buon senso. Poco conta se poi con il colpo di spugna si

cancelleranno anche le esigenze legittime; come per le fake

news, il conseguimento di un interesse primario farà dimenticare

gli inconvenienti di percorso.

Dispiace dover constatare che entrambi i processi si sviluppano

solo grazie a precise strategie volte a mantenere lo status

quo: chi ha i diritti se li tiene ben stretti, e chi non li ha sta

fuori, punto.

Non importa se questo sia giusto oppure no; anzi, per quanto

possa apparire paradossale, più i diritti acquisiti sono iniqui,

maggiore è l’accanimento con cui vengono difesi. Pensiamo

per esempio a quelle che, eufemisticamente, possiamo definire

“agevolazioni” a favore di quella piccola schiera di italiani,

che versano i contributi alla gestione previdenziale agricola,

una “cassa” caratterizzata da un forte squilibrio fra chi paga e

chi ne usufruisce. Affinché tali benefici siano giusti, devono

essere anche equi, nel senso di poter essere applicati a tutti

coloro che vivono di agricoltura, e non solo ad alcuni: chi

paga i contributi in una gestione deve godere di agevolazioni

precluse a chi paga sempre l’Inps, ma in un’altra gestione?

Perché il coltivatore diretto sì, e l’agromeccanico che gli fa

tutti i lavori agricoli, no?

È giusto che il primo venga aiutato a fare tutto ciò che fa il

secondo (se decide di farlo), mentre il secondo non può fare

tutto ciò che fa il primo o, se proprio vuole, lo fa senza l’aiuto

dello Stato?

In una dittatura tutto ciò sarebbe possibile; in uno Stato di

diritto, regolamentato da leggi che traggono spunto da una

Carta costituzionale fortemente garantista – almeno a parole

– nei confronti di chi soffre un’ingiustizia, non può esistere.

Purtroppo, assistiamo alla proliferazione di norme che, invece

di fare giustizia, approfondiscono il solco creato fra chi ha

tutti i vantaggi e chi non ne ha nessuno; fra chi paga le tasse

a bilancio, e chi le paga a sentimento, per non dire di peggio;

fra chi può fare ciò che vuole e chi invece è oppresso da una

burocrazia asfissiante.

Quando finalmente la parte meno fortunata prova a risollevarsi

e a chiedere giustizia, ecco che arriva la mano al momento

opportuno a banalizzare, ridicolizzare o cancellare del

tutto, ciò che potrebbe rendere più eque le nostre leggi. Un

esempio ci viene dal trattamento riservato da una commissione

parlamentare ad un progetto di legge contenente una

disposizione – poche righe in tutto – volta ad equiparare alle

aziende agricole, senza costi per lo Stato, tutti coloro che fanno

lo stesso mestiere degli agricoltori.

In un Paese moderno e realmente democratico questo non

dovrebbe avere bisogno di una legge specifica, perché le decine

di migliaia di leggi esistenti avrebbero già dovuto preoccuparsene

da tanto tempo.

Ma, come abbiamo detto, la radice dell’ingiustizia è la più dura

da estirpare: oltre a non avere risolto la questione nel passato,

l’argomento resta ancor oggi un tabù, se è vero che nessuno

ha voluto prendersi il merito (o il demerito) di cancellare la

proposta, che tuttavia è stata soppressa.

Per quanto tempo ancora – parafrasando Cicerone – una

certa parte della politica dovrà continuare ad abusare della

pazienza con cui gli agromeccanici propongono e ripropongono

ogni giorno il loro ruolo nell’agricoltura e ne chiedono

il riconoscimento?

Perché si continua a giudicare la macchina dalla targa e non

dalle prestazioni? E soprattutto, perché queste incongruenze

continuano ad essere sostenute da una certa parte della

politica? Quali timori inducono le imprese agromeccaniche,

senza le quali l’agricoltura italiana è destinata a regredire ad

un nuovo Medio Evo?

Queste sono le domande che poniamo ed a cui chiediamo

risposta.

• Gianni Dalla Bernardina

Presidente CAI