L’epidemia ci ha insegnato qualcosa oppure tutto tornerà come prima?

Lungi dall’essere terminata, la pandemia da Covid-
19 ci ha insegnato a vivere diversamente, a
fare a meno della comunicazione personale privilegiando
quella già resa disponibile dalla tecnologia
informatica ma finora esclusa, in gran parte, dal campo
professionale.
Ma ci ha insegnato anche altre cose, come ad apprezzare
il valore di tante piccole cose, ad amare la vita e
a preoccuparci della sua tutela, non solo per noi stessi
ma anche per quella strana cosa che è la collettività. Accanto
al risorgere di nuovi e vecchi egoismi, abbiamo
imparato che non siamo soli, e che ogni nostra azione
può influenzare quelle dei nostri simili, vicini o lontani
che siano. Qualcuno sta cercando di approfittare della
situazione: sono proprio coloro che, ai tempi dei blocchi
e delle sospensioni, si attaccavano a tutti gli appigli, ed
ora, dopo che i vincoli si sono allentati, fanno un gran
chiasso per chiedere aiuti ed indennizzi che forse non
meritano.
Come, aiutano questo e quello? E noi chi siamo per non
ricevere nulla? E via con le richieste più assurde, dimenticando
che nella civiltà dell’informazione basta sfogliare
qualche pagina web per fare chiarezza sui reali meriti
e demeriti, sui danni subiti e su quelli solo pretesi o paventati.
La fine dell’emergenza, che in questo momento
sembra delinearsi in lontananza, sta portando con sé le
prime vere contromisure per far ripartire l’economia; ma
siamo sicuri che esista una visione politica capace di
definire la direzione da prendere e l’obiettivo da raggiungere?
Siamo tutti consapevoli che in una situazione di emergenza
possa venire meno la visione d’insieme e che ci
voglia un minimo di stabilità per ragionare sul futuro,
tuttavia i primi segnali mostrano ancora la deprecabile
abitudine di accontentare prima chi grida più forte.
Il dibattito parlamentare sulla conversione degli innumerevoli
decreti legge emanati, invero con inspiegabile
ritardo, dall’inizio della fase emergenziale, ne costituisce
un esempio, davvero poco edificante; lo stesso decreto
“Rilancio”, che dovrebbe essere il propulsore di una difficile
ripresa, con una mano concede e con l’altra toglie.
Per esempio, i contributi per migliorare la sicurezza rispetto
al rischio microbiologico verranno inseriti in un
prossimo bando ISI-Inail, che prenderà il posto di quello

pubblicato a fine anno e ora revocato; la tutela della salute
dei lavoratori non è giustificata dal rispetto per la
persona, ma solo dall’opportunità di alleggerire il compito
del servizio sanitario nazionale rispetto all’epidemia.
Evidentemente passa in secondo piano il rischio di una
risalita degli infortuni sul lavoro, dovuta o influenzata
dai minori investimenti fatti dalle imprese, in mancanza
degli incentivi previsti dal bando ISI 2019, che avrebbe
dovuto partire questo mese, se non fosse stato revocato.
Il provvedimento contiene una clausola di salvaguardia
a favore dei contributi per le micro, piccole e medie
aziende, oltre agli intoccabili aiuti riservati ai produttori
agricoli: al governo e all’Inail la grave responsabilità di
scrivere un nuovo bando che eviti, come già accadde
nel passato, di allargare il solco esistente fra i diversi attori
delle filiere agricole. Nonostante le recenti prese di
posizione del ministero del lavoro, che ha nuovamente
sancito il principio della soggettività – siamo ciò che
facciamo – continuano a resistere pregiudizi che creano
incomprensibili differenze di trattamento fra imprese e
uomini che operano con le stesse finalità.
Il trattamento fiscale delle imprese agromeccaniche è
sostanzialmente diverso da quello dei loro clienti, pur
lavorando entrambi per assicurare a tutti alimenti sani
e sicuri, anche dal punto di vista della certezza di trovarli
sui banchi della distribuzione; un elemento questo
di non secondaria importanza, che la pandemia ci ha
obbligati a rivalutare. Se un agricoltore vuole prestare
servizi a terzi, la possibilità gli è (giustamente) riconosciuta;
meno giusto appare l’incentivo fiscale, dato che
l’agromeccanico che coltiva in proprio un pezzo di terra
non può godere dello stesso trattamento.
E non parliamo di altri incentivi, che premiano gli investimenti
per migliorare l’efficienza del sistema agroalimentare,
ma scansano accuratamente le imprese di
servizi: oltre agli agricoltori, i contributi per lo sviluppo
rurale sostengono tutti gli altri soggetti della filiera, ignorando
però le imprese agromeccaniche. Forse, con una
punta di cinismo, chi ha deciso così sa che le imprese
di meccanizzazione agricola sono abituate ad investire
e rischiare in proprio, e se non riescono ad accedere ai
fondi dei Psr si impegnano in gravi sacrifici personali, pur
di incrementare l’efficienza e ridurre i costi della produzione
agricola.

• Gianni Dalla Bernardina
Presidente CAI